Don Bruno Bertoli e il Centro

Don Bruno Bertoli fu per quasi vent'anni molto più che il Presidente del Centro Pattaro: ne fu la mente lucida che indicava la rotta e il cuore pulsante che gli dava vita.

UN VERO MAESTRO

“Fossero tutti teologi”: si intitolava così un editoriale del “Notiziario del Centro di studi teologici Germano Pattaro” (anno 1989, n. 2, p. 1), scritto proprio da don Bruno. È un’espressione ottativa che indica bene l’impegno principale che il Centro Pattaro si era proposto e che don Bruno aveva assunto in pieno, dopo aver ricevuto dall’ultima voce di don Germano il compito di far fruttare il talento della biblioteca da lui donata alla Chiesa di Venezia perché diventasse strumento di ricerca, di meditazione, di studio e dialogo teologico per i laici. Un compito che non poteva non suonare arduo alle orecchie di don Bruno, ben consapevole che non correvano tempi favorevoli a un laico che a Venezia volesse studiare teologia: erano difficilmente accessibili sia la biblioteca del Seminario sia le facoltà di teologia (la più vicina a Milano!). D’altra parte, da qualche anno lo spirito del Concilio aveva suscitato un vivo interesse per la Bibbia, documentato dai corsi e convegni organizzati dall’Azione Cattolica e dalla nascita della Scuola Biblica diocesana, accolti con entusiasmo da numerosi fedeli laici. Don Bruno pensava che tutto ciò non bastasse, che per essere adulti nella fede, i laici (anche i preti!) dovessero intraprendere una sorta di “formazione permanente”, convinto com’era che “lo studio della teologia non è un lusso”.

Vero “insegnante” (ma non sarebbe fuori luogo per lui il termine classico di “maestro”), animato da autentica passione per la conoscenza, da grande rigore scientifico e dal desiderio (da educatore nel senso proprio del termine) di alimentare la crescita personale e culturale degli altri, a chi meglio di lui poteva don Germano affidare la sua biblioteca? Eppure i due erano molto diversi, per carattere e anche per personalità culturale. Tuttavia, due cose li accomunavano: la convinzione che i cristiani dovessero presentarsi sulla scena del mondo contemporaneo con un’elevata qualificazione culturale e l’impegno profuso da entrambi per la formazione teologica e spirituale dei giovani, nella scuola e nelle associazioni cattoliche: non a caso, trent’anni prima, era stato don Germano a suggerire al patriarca Roncalli la nomina di don Bruno ad assistente della Fuci, al suo fianco.

Don Bruno divenne subito la persona decisiva per la realizzazione del sogno di don Germano. Provvide innanzitutto a formalizzare giuridicamente la donazione della biblioteca: la cosa, pur con la piena disponibilità degli eredi, gli costò il superamento di difficoltà e lentezze, in un ambito per lui inusuale e ostico.
Dal sacco delle sue doti egli seppe trarre la determinazione e la pazienza necessarie per dedicarsi alla ricerca delle risorse economiche indispensabili, incontrando personalmente decine di persone, mettendo in campo realismo e “parresìa” e raccogliendo una cifra che, pur insufficiente per costituire una fondazione, fu comunque cospicua e rivelò il possesso di capacità “imprenditoriali”, forse a lui stesso sconosciute. Il progetto poteva perciò cominciare a vivere e don Bruno guidò il Centro di studi teologici come presidente dalla sua costituzione fino al 2003, spendendosi senza risparmio, al punto che si può tranquillamente affermare che senza don Bruno il Centro non avrebbe mai potuto esistere.

Una discriminante egli pose fin dall’inizio, dettata dalla sua sensibilità ecclesiale e dalla sua saggezza di storico, che ben conosceva le vicende della Chiesa: l’istituto che sarebbe nato avrebbe dovuto essere “incardinato nella Chiesa di Venezia, nella quale e per la quale don Germano spese tutta la sua esistenza” (dalla “Lettera agli Amici di don Germano Pattaro”, 15.05.87). Tale “linea” suscitò all’epoca non poche critiche, ma essa aveva lo scopo, come egli stesso ribadì più volte anche in seguito, di dare all’istituto nascituro un’esistenza certa, “istituzionale”, per evitare che fosse esposto a eventuali diversità di vedute da parte dei vescovi che si sarebbero succeduti sulla cattedra di Marco. Una prudenza suggerita dalla conoscenza delle vicende di istituti similari sorti in altre città e diocesi. Tale linea fu da lui confermata quando il patriarca Scola diede vita allo Studium Generale Marcianum: come presidente dello Studium Cattolico Veneziano e del Centro Pattaro desiderò che entrambi vi partecipassero, perché riteneva che non si trattasse solo di una preziosa occasione per inserirli in una dinamica culturale più ampia, ma anche di un’opportunità per realizzare più efficacemente la missione di entrambi di alimentare la crescita culturale della Chiesa di Venezia. Come ha ricordato il patriarca Scola nell’omelia alla messa esequiale, don Bruno aveva ben compreso fin dall’inizio il senso e lo scopo del Marcianum e le sue potenziali ricadute benefiche sulla vita pastorale della diocesi, e per questo ne aveva approvato e incoraggiato la nascita.

In tutta la vita del Centro Pattaro è rimasta l’impronta delle sue doti di studioso e di insegnante.
Valutando con lucidità la situazione della Chiesa di Venezia, aveva ben individuato nella formula “divulgazione teologica seria” la prospettiva per il Centro: divulgazione, perché di questo c’era (e c’è ancora) bisogno, stante la limitata competenza anche di laici assai generosi e impegnati; seria, perché riteneva che il pressappochismo fosse una sciagura, della quale veniva in fin dei conti a fare le spese la capacità dei cristiani di rendere oggi credibile la testimonianza e l’annuncio di fede.
Da tutti, perché in primo luogo da se stesso, esigeva la competenza e la precisione, insegnandoci giorno per giorno che cosa significa lavorare in un centro culturale degno di questo nome. Ciò appariva in modo speciale nel modo in cui si rivolgeva ai giovani obiettori che svolgevano servizio civile presso il Centro, ai quali insegnava non solo come lavorare in una biblioteca ma anche a prendere gusto per la cultura in generale e per la teologia in particolare e persino a come “pensare con la propria testa” (come ha ricordato un suo ex-allievo in una lettera a “Gente Veneta”, 2011, n. 33, p. 22). Era questa, infatti, una delle sue preoccupazioni più pressanti: educare a pensare da sé, anche nella teologia, sempre con la disponibilità a valutare con attenzione e sincerità ogni voce, senza pregiudizi e chiusure aprioristiche, rispettando tutte le posizioni in campo ma anche assumendosi la responsabilità di vagliare criticamente, per saper trovare quanto di “vero” ci può essere in ogni tesi, perfino in quelle più “antipatiche”, e mostrando l’umiltà di rivedere le proprie quando infondate o unilaterali.
Così, nel proporre i temi per lo studio dei gruppi e per i cicli di conferenze, spingeva a scegliere questioni di fondo, a volte poco praticate, perché convinto che la formazione teologica dovesse concentrarsi sui grandi temi della fede e della storia; in questo modo ci ha anche insegnato a non lasciarci frastornare dalle mode culturali e a diffidare dalle tesi troppo facilmente condivise.